Racconti storici: Nel segno di Dio

 

Nel 

segno 

di Dio







Londra, cappella reale del palazzo di Eltham, 11 Novembre 1480


Male, male. Molto, ma molto male.

Corteo infinito, risatine gracchianti di sottofondo, uomini abbigliati come se dovessero assistere alla giostra e dame talmente ingioiellate che per poco non camminano gobbe per il peso.

Cominciamo male. Anzi malissimo.

Una confusione del genere non è minimamente adatta alla situazione. In realtà in questa famiglia reale non c’è niente che venga organizzato di vagamente adatto al contesto ed al rango tanto ostentato. Ma ormai dopo quasi dieci anni posso dire di essermici quasi abituata.

A tutto ci si abitua. Mi sono abituata all’assenza dei miei genitori e fratellastri, alla perdita di due mariti, a quella di mio figlio assieme al mio fidato cognato. Mi sono abituata a vivere nell’artefatto mondo degli York, figuriamoci se non posso abituarmi a quest’ennesima offesa alla decenza. Dio non ci mette mai di fronte a prove che non possiamo superare. Perciò se mi ha messa in questa situazione, vuol dire che posso affrontarla. Posso superarla.

Quando sono nata sul trono c’era un sobrio re lancastriano mio parente, un uomo letteralmente a metà strada fra la mortalità e la santità; ora invece mi ritrovo a servire nella lussuriosa e scabrosa corte yorkista ed ancora faccio fatica a credere di esserci finita davvero. Ma hanno vinto loro c’è poco da fare; perciò devo adattarmi a tutto questo e cercare di andare avanti.

Tuttavia in questo specifico caso devo dire che si sono superati in quanto a volgarità. Non che normalmente siano gente elegante, sobria o semplicemente timorata di Dio. Hanno strappato la corona al legittimo re affogandolo nel sonno ed ucciso come un cane sul campo di battaglia il vero principe di Galles. Pensano di essere diventati immortali e come tali si comportano. Pensano di essere divenuti pari a Dio se non addirittura qualcosa d’infinitamente superiore.

La cerimonia che hanno organizzato è vistosa, pacchiana e senza un minimo di rispetto per ciò che essa dovrebbe effettivamente rappresentare. Ma del resto cosa ne vuole sapere di raffinatezza e buon gusto una regina cresciuta in mezzo ai campi di Grafton. Cosa ne potrebbe mai capire di come si battezza una figlia destinata a servire Dio. Inutile chiedere al suo inutile marito, il cui unico talento era quello di saper massacrare la gente in guerra. Dico era, perché attualmente è il pallido riflesso dell’uomo che è stato. Semplicemente lo squallido ricordo di sé stesso.

Se prima Edoardo di York poteva contare sulla giovinezza e sul bell’aspetto, ora decisamente non possiede più nemmeno quello; tutto ciò che resta del magnifico re dorato è solo un grassone alcolizzato capace solo di obbedire ai capricci del suo basso ventre. E sua moglie, non certo migliore di lui, lo asseconda in tutto, arrivando a procurargli tutte le puttane che vuole con la complicità dei figli di primo letto. L’importante è che lui stia calmo e quieto mentre lei e tutti i suoi infiniti parenti divorano l’Inghilterra come fecero le cavallette in Egitto.

Mentre suo marito asseconda i suoi scabrosi vizi, Elisabetta Woodville figlia peggio di una scrofa, da degna erede di un contadino qual è sempre stata. Quando ho sposato il mio attuale marito sapevo che il prezzo da pagare per il ritorno al potere sarebbe stato servire questa donna che più di me non ha proprio un bel nulla a parte l’aspetto. Ma non immaginavo che sarebbe stata tanto dura sopportare la sua indole vuota e vanesia ogni santissimo giorno.

È la mia prova. So che è la mia prova. Non può essere diversamente. Altrimenti Dio non mi avrebbe messo in questa situazione. Se riuscirò a superarla, Lui mi darà ciò che mi ha promesso da sempre: il trono per mio figlio.

Ogni cosa bisogna sudarsela e l’Altissimo non regala mai nulla, specialmente a coloro che ama di più. E anche quando ci fa un dono, noi dobbiamo essere sempre capaci di custodirlo e di preservarlo a futura memoria della sua infinita misericordia; e sarà esattamente ciò che dirò a mio figlio il giorno che sarà incoronato. Non voglio vederlo scivolare nel peccato come sta accadendo a questo re che per quanto mi riguarda, ha goduto fin troppo del favore divino.

Quando sul trono c’era il vecchio re Enrico, Edoardo di York era il figlio maggiore di un duca reale. Nulla più. Il padre era un ometto insignificante, megalomane con velleità regali a dir poco ridicole. La sua fortuna è stata quella di avere dalla sua parte uomini potentissimi come Lord Warwick assieme al di lui padre il conte di Salisbury.

In questo la nostra regina non è stata molto accorta. Se li è inimicati troppo, non li ha mai favoriti in nessun senso e dato che non avevano sangue reale, loro poi hanno pensato bene di approfittarsi di quella testa vuota del duca di York. Anche se purtroppo per come sono andate le cose non c’era molto altro che si sarebbe potuto fare. Re Enrico era un santo ma un pessimo sovrano. Non era adatto e le sue precarie condizioni di salute mentale hanno fatto il resto. La regina Margherita… che Dio mi perdoni ma era una bambinona cresciuta. Era bella, coraggiosa, ma totalmente incapace. Subiva pesantemente l’influenza di mio zio Edmund Beaufort e si è visto poi dove hanno portato loro stessi e tutti noi Lancaster.

Un re dedito solo alla preghiera, una regina straniera succube del suo bel cortigiano ed un erede al trono probabilmente bastardo. Non posso negare come di fatto proprio loro abbiano contribuito alla fortuna degli York molto di più di quanto abbiano fatto gli York stessi.

Mia madre dopo il fallito fidanzamento con il duca di Suffolk, mi aveva sposata al fratellastro di re Enrico proprio per tenermi vicina alla linea di successione; del resto mia madre era una donna che pensava al vantaggio politico sempre e comunque. Non mi ha mai amata e per lei sono sempre stata solo un peso fastidioso. Quando mio padre è finito rovinato dai debiti e si è suicidato, mi guardava sempre come se fossi il risultato di un investimento sbagliato. Bisognava assolutamente rimediare.

Da qui il mio matrimonio con Edmund Tudor. Io avevo inutilmente tentato di convincerla a mandarmi in convento e di lasciarmi in pace in mezzo ai libri, ma lei niente. Si sarebbe liberata di me ma nel farlo, doveva assolutamente guadagnarci. Lei doveva sempre guadagnarci. Se non c’era un profitto per lei era perfettamente inutile fare qualcosa, qualunque cosa. Perciò un giorno senza tante cerimonie, aveva fatto preparare i miei bauli e tempo qualche ora ero già per strada verso il Galles. Neanche i miei libri mi aveva lasciato portare, ero riuscita a malapena ad agguantare la Bibbia, l’unica cosa che mi avrebbe davvero dato conforto in mezzo a quella gente che parlava ancora la lingua dei pagani.

Al mio arrivo il mio “sposo” neanche si era fatto trovare. Avrei conosciuto lui e suo fratello a cena dopo essermi cambiata. Non me lo dimenticherò mai quel giorno. Non ho mai amato Edmund eppure l’espressione con cui mi guardò quella sera proprio non riesco a dimenticarla: il ritratto della delusione.

Avevo soltanto dodici anni e lui venticinque. Evidentemente da come mia madre doveva avergli parlato, si aspettava una giovane donna matura e magari pure dall’indole sessualmente disinibita. E lui esattamente come aveva sempre fatto la mia genitrice, mi aveva fissato come fossi il risultato di una compravendita finita male e da cui certamente non avrebbe più potuto sottrarsi.

Suo fratello invece mi aveva guardata con genuina curiosità e sincero stupore. Sicuramente non immaginava fossi tanto giovane e cosa ben peggiore che lo dimostrassi pure. Ero una bambina ed era maledettamente evidente. Una bambina tutta gomiti e ginocchia, dal volto austero, i lineamenti aguzzi, le labbra serrate ed i capelli scuri. Una bambina a cui diventar donna non interessava affatto. E loro non potevano farci un bel nulla.

I pochi mesi passati come sua moglie neanche li ricordo. Ogni tanto ci penso, ma nella mente mi appare come un vuoto, un buco nero. Non ricordo davvero nulla, quasi come se la mia testa si rifiutasse di rivivere quei momenti. O forse è Dio che nella sua infinita misericordia, mi protegge da ciò che può recarmi dolore.

Quando Edmund è morto per la peste ero incinta di sette mesi. Almeno così dicevano le levatrici. Io stavo solo male mentre mi vedevo gonfiarmi giorno dopo giorno. Quando poi è arrivato il momento del parto ero certa che sarei morta. Quel momento invece mi è rimasto impresso nella mente come un orrendo incubo da cui non riesci a svegliarti.

Non riesco a dimenticarlo, per quanto ci abbia sempre provato. Non riesco a reprimere l’immagine delle levatrici che per farmi partorire mi avevano caricata su di un lenzuolo per poi farmi saltare per aria come fossi una palla. Il tutto mentre mi sentivo come se stessi letteralmente per implodere.

Ricordo che il dolore era così lancinante che nemmeno riuscivo a piangere. Non riuscivo nemmeno a pregare per rimettere la mia anima a Dio. Quelle immagini mi avrebbero tormentata per sempre, incollate davanti ai miei occhi come un orribile sogno lucido.

Poi col tempo e con la preghiera ho capito il perché non riesco a dimenticare quel ricordo: in quel sacrificio c’era il senso di tutta la mia vita, il mio scopo, il segno di Dio. E per sua volontà non avrei mai dovuto dimenticarmelo.

Quando mi misero mio figlio tra le braccia per la prima volta ricordo che non provai assolutamente nulla. Per la verità ero solo stupita di essere ancora viva e di essere stata risparmiata.

Il bambino fortunatamente non assomigliava affatto né a Edmund né ai Tudor, ma solo e soltanto a me. Perciò in onore del mio caro parente il re, lo avevo chiamato Enrico.

Solo Jasper sarebbe rimasto dietro la grata ad attendere la nascita di suo nipote, l’unica cosa lasciata dal suo amato fratello. Ancora una volta nessuna compassione per me; nessun affetto per me. Io ero la fattrice dei Tudor e il mio destino non aveva nessuna importanza. Tuttavia avevo avuto un maschietto sano e questo significava due cose: per mia madre, il preludio di un altro vantaggioso matrimonio, per Jasper Tudor, un erede per la contea di Richmond. Della piccola rediviva Margaret non importava niente a nessuno.

Mentre mi riprendevo dal parto, il mio posto nella nursery venne occupato da Jasper. Era stato lui ad organizzarla in ogni minimo dettaglio; infatti sapeva esattamente quanto lo sapevo io, che non sarei mai stata capace essendo una bambina io stessa. Una bambina che con ogni probabilità avrebbe dovuto giocare alla pari con Enrico nella nursery piuttosto che occuparsi di lui.

Nessuno si aspettava niente da me. Jasper seguiva e curava Enrico come se fosse stato suo figlio e mia madre tramava per un mio nuovo matrimonio.

Non ne venni neppure informata, tanto la mia reazione non avrebbe fatto alcuna differenza.

Dopo il mio quattordicesimo compleanno era arrivata una sua lettera dove tanto rapidamente quanto freddamente, mi comunicava che avrei dovuto lasciare Enrico con Jasper Tudor e andare a sposare il mio nuovo padrone: Henry Stafford.

Mia madre quando parlava di lui, si esaltava come se un tale accordo fosse stato una sorta di suo trionfo personale. Io francamente non condividevo il suo stesso entusiasmo: il secondogenito del duca di Buckingham … il figlio cadetto di uno Stafford. Che gran bel risultato era valso il mio sacrificio. Comunque Stafford era un uomo molto ricco, celibe, di ventotto anni e senza figli, nemmeno bastardi. L’aver avuto un figlio maschio in tempi brevi costituiva per me un ottimo inizio carico di aspettative.

Il giorno che lasciai il Galles quasi non mi resi conto che stavo dicendo addio a mio figlio. Quando provavo a prenderlo in braccio piangeva immediatamente tanto che subito interveniva o Jasper o una domestica per togliermelo dal grembo. Per loro ero troppo giovane per sapere come gestirlo. Il giorno della mia partenza mi ero limitata ad un distratto bacio sulla fronte e con un cenno avevo salutato il mio ex cognato.

Henry Stafford sembrava molto più vecchio dei suoi ventotto anni. O forse lo sembrava per i suoi modi un po' lenti ed austeri, così diversi dal carattere irruento e volitivo di Jasper. Il nostro matrimonio non sarebbe stato tanto male se non avessimo avuto due caratteri completamente differenti e soprattutto io non fossi stata costantemente terrorizzata all’idea di rimanere nuovamente incinta.

Lui come me era sempre gentile, ma io non riuscivo mai ad apprezzarlo. Pur di farmi contenta si era messo ad insegnarmi il latino e mi aveva dato una bella rendita tutta mia. Ma non riuscivo comunque ad apprezzare nemmeno questo. Non gli interessava la politica, non gli interessava la corte, né il re, né la guerra ormai scoppiata fra Lancaster e York. Un uomo totalmente passivo sotto tutti i punti di vista.

Poi … le cose tra noi erano definitivamente crollate. Un pomeriggio ero nella mia cappella privata e stavo pregando, come sempre. Pregavo per avere un segno. Sentivo che nella mia vita c’era qualcosa che non funzionava. Non stavo avendo figli e la situazione politica inglese era sempre più incerta. Solo mio marito non se ne preoccupava minimamente come se la cosa non lo riguardasse in alcun modo.

Sentivo di dover fare qualcosa ma non sapevo cosa. Sapevo di non essere destinata ad una vita banale, o comunque comune. Ero nata in una famiglia potente ma il Signore mi aveva mandato da subito abbastanza sciagure da farmi capire come da me si aspettasse più che da tutti gli altri. Ma non capivo cosa.

Avevo sposato sia Edmund Tudor che Henry Stafford ma a cosa mi sarebbe servito tutto questo? Che piani aveva il Signore per me? Qual era il mio scopo, la ragione del mio martirio ed ora della mia sterilità?

Ricordo che stavo fissando il crocifisso. Ogni tanto avevo dei dolori allo stomaco dato che spesso digiunavo. Oltre all’illuminazione di sapere cosa fare, digiunavo per chiedere a Dio la forza di farmi accettare un marito senza ambizioni ed una madre che lamentava l’assenza di eredi Stafford.

Ad un tratto alle spalle della cappella, nonostante fosse il tramonto, era penetrata una luce fortissima che aveva invaso tutto l’edificio. La luce era accecante e dalle finestre sembrava come intensificarsi, tanto che ad un certo punto avevo iniziato a sentire la testa che mi girava, facendomi cadere a terra dall’inginocchiatoio. Avevo alzato lo sguardo mantenendomi la testa ed avevo visto la statua della Vergine Maria. Era sistemata alla mia destra, trionfante con il bambino Gesù in grembo. Entrambi rifulgevano letteralmente di luce propria, lei con la sua corona in testa e lui ben saldo fra le braccia di colei che lo guidava.

Una madre ed un figlio… la regina del cielo con suo figlio, re dei cieli e della terra. Una donna giovanissima con un unico e solo figlio. Una ragazza scelta appositamente da Dio per essere la madre del re dei re, il Salvatore del mondo.

Una madre giovanissima ed un unico figlio … un matrimonio esistito quel tanto che bastava per concepire un erede per i Lancaster … un Paese senza una vera famiglia reale dilaniato e distrutto dalle guerre fra i due casati regnanti. Un bambino che porta il nome di un re Santo, figlio di una giovane donna sola e di sangue reale ...

Ero io? Io e mio figlio Enrico?! Era questo il motivo per cui mi era stata negata la vita ecclesiastica? Per questo ero stata maritata ad un uomo vissuto giusto il tempo di dare un erede al casato di Lancaster? Per questo ero stata risparmiata dal parto? Per questo non stavo avendo più altri figli e sentivo costantemente che c’era qualcosa che avrei dovuto fare?

Mio figlio era destinato ad essere re? Il re che avrebbe portato la pace, che avrebbe messo fine a tutte le guerre e dato finalmente serenità all’Inghilterra? Ed io in quanto sua madre e suo unico genitore ero il mezzo scelto da Dio per guidarlo e proteggerlo fino a quel giorno? Jasper era una sorta di San Giuseppe, un padre non tale ma che lo avrebbe protetto come un figlio sino alla fine?

Mentre riflettevo su questo, fissando la statua della Madonna, questa ad un certo punto si era illuminata ancora di più fino a far scintillare la corona sul suo capo; ricordo ancora quella voce provenire dall’alto: “Maria la regina madre del cielo … Margaret, la regina madre d’Inghilterra”.

Poi ero svenuta.

Sarebbe stato mio marito a ritrovarmi qualche ora dopo, accasciata sul pavimento della cappella ormai avvolta dal nero della notte.

Al mio risveglio tutto mi era stato finalmente chiaro. Ora tutto aveva un senso. Dio aveva in mente un destino ben preciso per me ma soprattutto per mio figlio; quel bambino che a malapena aveva degnato di uno sguardo il giorno in cui era nato, era il suo prescelto. In virtù di questo, io non mi stavo comportando all’altezza del compito richiestomi, visto che da quando avevo lasciato il Galles lo avevo completamente ignorato. Io avrei dovuto indirizzarlo verso il suo vero scopo di vita, io e nessun altro. Se volevo riacquistare il favore divino e dare un senso alla mia esistenza, dovevo riprendermi mio figlio ed adempiere al compito affidatomi da Dio.

Da allora avevo cercato di andare a trovarlo il più possibile. Ogni volta lo trovavo sempre più cresciuto e sempre più devoto allo zio Jasper. Cercavo di parlargli del suo sacro destino, ma ogni volta lui mi fissava sgranando gli occhioni scuri come se fossi stata una la sua governante quando gli raccontava le favole. Avevo parlato sia a Jasper che a mio marito della mia visione, ottenendo ovviamente delle reazioni molto diverse.

Jasper mi credeva. Dunque avevo ragione; lui era il San Giuseppe scelto da Dio per sostenere mio figlio. Jasper credeva alla mia visione, ed anche lui sosteneva come Enrico fosse un bambino destinato a qualcosa di grande. Conosceva da sempre la mia devozione e non nutriva dubbi sul fatto che Dio potesse aver scelto una donna pia come me per generare il Salvatore dell’Inghilterra. Meglio ancora se figlio di suo fratello.

Su quest’ultimo punto non l’ho mai contraddetto perché so bene quanto lo amasse. Ma Enrico esattamente come nostro Signore Gesù, ha un solo genitore terreno ossia sua madre; Enrico dunque ha solo me. Edmund è servito soltanto a generarlo per poi sparire nel nulla per volontà di Dio stesso. Ma ovviamente non l’ho mai detto a Jasper per timore di offenderlo.

Mio marito invece… stendiamo un velo pietoso. Mi aveva guardato come se fossi pazza per poi semplicemente ignorarmi ogni volta che glie ne parlavo. Mi dava il permesso di andare a trovare spesso mio figlio ma solo per non indispormi maggiormente. Non mi ha mai appoggiata, non mi ha mai creduta, non mi ha mai sostenuta.

Per questo quando è morto mi sono sempre considerata la vedova Tudor e basta, rigorosamente in rispetto di mio figlio e del ruolo che Dio mi ha dato in questo casato.

 La guerra infatti in quegli anni era andata avanti a oltranza, con Lancaster e York che si contendevano il trono falcidiando tutti gli inglesi. All’inizio il duca di York era riuscito a sconfiggere la regina Margherita che era dovuta fuggire in Scozia con il figlio. Poi lei era tornata accompagnata da un esercito di barbari del nord ed aveva ucciso il duca assieme al figlio Edmondo di Rutland.

Ma purtroppo la cosa non era finita lì. Il diciottenne Edoardo di March, il figlio primogenito del duca di York, aveva raccolto le pretese paterne e con l’aiuto di Lord Warwick era riuscito ad annientare Margherita a Towton costringendola a fuggire di nuovo per poi farsi incoronare re.

In realtà il bel ragazzo York non era mai stato effettivamente il nuovo sovrano. Lord Warwick non lo aveva certo sostenuto ed aiutato in cambio di un grazie. Infatti era sempre lui a comandare mentre il bel giovinotto saltava da un letto all’altro con la sua nuova corona in testa. Tuttavia dopo quattro anni le cose erano cambiate. In un modo che nemmeno Warwick avrebbe potuto aspettarsi.

Il bell’Edoardo era un giovane uomo dedito solo alle proprie passioni e a come assecondarle. Come risultato si era sposato in segreto con una vedova cinque anni più grande di lui e con due figli: Elisabetta Woodville. In realtà la ragazza non era una totale sconosciuta: avevo conosciuto la madre Giacometta di Lussemburgo a nove anni quando questa era al servizio della regina Margherita come sua dama di compagnia.

Dopo essere rimasta vedova del duca di Bedford lo zio del vecchio re Enrico, aveva disonorato sé stessa sposando lo scudiero Richard Woodville. Margherita per pura misericordia lo aveva fatto barone di Rivers, quel tanto che bastava per dare un titolo scalcagnato a quella coppia di poveracci, che in quanto tali aveva iniziato a figliare come cani. Quattordici figli di cui tredici sarebbero rimasti in vita.

Elisabetta era la maggiore. Avevo sentito dire che avesse irretito Edoardo con la sua incredibile bellezza o forse con arti che non voglio nemmeno pensare perché sennò peccherei. Comunque dopo averla sposata di nascosto aveva sfidato Warwick portandola a corte come sua legittima sposa e regina.

Poi Elisabetta e sua madre prive da sempre di qualunque senso della vergogna, si erano presentate con tutta la famiglia al seguito. Tempo un anno ed erano i Woodville i nuovi padroni della corte. Warwick continuava ad essere l’uomo più ricco e potente d’Inghilterra ma aveva capito che la regina stava spingendo il consorte a fare sempre più a meno di lui.

L’insulto definitivo era stato il netto rifiuto di concedere le due figlie di Warwick a fratelli minori di Edoardo: Giorgio di Clarence e Riccardo di Gloucester. Per rendere il tutto ancora più chiaro, aveva anche maritato la sorella Margherita di York al duca di Borgogna, parente di Giacometta di Lussemburgo.

Warwick a quel punto aveva convinto Giorgio di Clarence a tradire sposandolo in segreto con sua figlia maggiore Isabella. Ci avevano provato due volte, ma sempre fallendo. Poi mentre fuggiva dall’altra parte del mare per salvarsi dall’ex pupillo, il caro conte era finito alla corte di Francia. Proprio al cospetto della regina Margherita, da tempo lì in esilio con il figlio. Un accordo matrimoniale fra il principe Edoardo di Lancaster ed Anna Neville, l’altra sua figlia, e via, ritorno in Inghilterra trascinandosi appresso un recalcitrantissimo Giorgio di Clarence che da aspirante re si era ritrovato a fare da tappezzeria alla rinnovata fazione lancastriana.

Warwick una volta sbarcato era riuscito a far fuggire Edoardo assieme a William Hastings, Riccardo di Gloucester ed Anthony Woodville. Durante l’invasione la Woodville si era rinchiusa con le figlie nell’abbazia di Westminster invocando il diritto di asilo. Lì aveva poi partorito l’erede degli York.

Il giorno che lord Warwick aveva tirato fuori re Enrico dalla prigione rivestendolo come re, era stato il giorno più bello della mia vita. Ero corsa a svegliare mio marito dando subito l’ordine di partire per Londra. Jasper ed Enrico erano già lì ad aspettarmi.

Una volta arrivata, mio figlio mi aveva immediatamente riconosciuta e si era spontaneamente precipitato fra le mie braccia. Edoardo in passato aveva punito Jasper costringendolo alla fuga e poi mi aveva tolto la custodia di Enrico per affidarlo a Sir William Herbert, uno dei suoi galoppini York.

Io avevo riempito di lettere Enrico, ricordandogli ogni santissimo giorno che lui era un Lancaster, qualunque cosa avesse stabilito l’impostore chiamato re Edoardo; ma lui si stava pericolosamente affezionando agli Herbert, tanto che alla fine aveva smesso di rispondermi. Nelle sue brevi missive si limitava a chiedermi se avessi notizie di suo zio Jasper. Fine. Nemmeno a lui importava qualcosa di sua madre. Fu il periodo più terribile della mia vita. Stavo perdendo mio figlio e quell’autentica nullità di mio marito nemmeno sembrava intenzionato ad aiutarmi a riprendermelo. Non mi era rimasto altro che pregare. Pregare sempre, ininterrottamente, perché Dio mi avrebbe mostrato cosa fare per adempiere alla sua volontà. E lui non mi aveva delusa. L’unico al mondo che non mi ha mai delusa.

Mi aveva ridato mio figlio, in quel momento piangente fra le mie braccia come neanche quando era neonato. Sembrava molto più piccolo dei suoi quattordici anni o perlomeno io lo vedevo così.

Mi aveva implorato di perdonarlo, mentre mi raccontava che gli uomini di Warwick avevano sterminato l’intera famiglia Herbert. Lui si era salvato soltanto perché era Enrico Tudor, figlio di lady Margaret Beaufort, nipote di re Enrico di Lancaster.

In quel periodo così nero non avrei mai creduto che quel giorno sarebbe finalmente arrivato. Dio mi aveva restituito mio figlio. Il mio bambino finalmente aveva compreso ciò che stavo preparando per lui, il sacrificio straordinario che stavo portando avanti per lui. Finalmente mi veniva fatta giustizia.

Ma la nostra gioia purtroppo era durata poco. Nulla potevamo contro la stregoneria della regina Elisabetta Woodville e di sua madre. Edoardo cinque mesi dopo infatti era ritornato con un piccolo esercito dalla Borgogna e solo dopo la regina Margherita si era imbarcata con i suoi uomini dalla Francia.

Edoardo perciò aveva così affrontato prima l’ex mentore, ormai rimasto solo visto che Giorgio da degno figlio di York, era subito tornato dalla parte del fratellone fingendo pentimento.

Dopodiché gli era stato facile annientare mio cugino Edmund Beaufort a capo delle truppe della regina Margherita. Per quanto riguardava il principe Edoardo di Lancaster, questi era stato rapidamente catturato e poi ucciso in una boscaglia dai tre fratelli York.

Gli York erano tornati al potere. Jasper e mio figlio non avevano avuto altra scelta che fuggire in Bretagna mentre io ero dovuta tornare da quella vergogna di uomo con cui avevo la disgrazia di essere sposata. Non correvamo alcun pericolo visto che mio marito alla fine aveva deciso di appoggiare Edoardo schierandosi contro la mia famiglia. Ma Dio queste cose se le ricorda e ne tiene sempre gran conto. Infatti Henry Stafford l’avrebbe pagata molto cara dato che durante una battaglia al seguito di Edoardo, era rimasto ferito alla gamba la quale si era subito infettata portandolo alla morte.

Il giorno in cui l’ho seppellito avrei tanto voluto piangere. Dopotutto eravamo stati sposati quattordici anni e nel complesso mi aveva sempre trattato bene. Ma non mi aveva mai presa sul serio, non mi aveva mai ascoltata, non mi aveva mai capita. Mi vedeva come una donna qualsiasi, anzi neppure quello perché so che mi considerava soltanto una spostata.

Aveva sempre fatto tutto di testa sua ignorando completamente i miei consigli e pertanto aveva pagato come in fondo meritava. Pochi mesi dopo se ne sarebbe andata anche mia madre e quello era stato davvero il giorno più felice di tutta quanta la mia vita. Avevo perso i miei due padroni, i miei due carcerieri. Ora Dio mi metteva al suo completo servizio, senza fallo. Dovevo lavorare per permettere a mio figlio di ritornare a casa e ridargli il trono, seguendo la sua volontà poiché di fatto ormai ero pronta a farlo.

Henry Stafford mi aveva lasciato ricchissima, quindi potevo convolare a nozze con chiunque avessi desiderato. 

Ovviamente dovevo essere accorta; ormai gli York si erano presi il potere e l’unico modo per abbatterli era agire dall’interno. Trovare i loro punti deboli e sfruttarli contro di loro. Dio mi avrebbe mostrato come fare; io dovevo soltanto fare la mia parte.

Henry Stafford passando dalla parte degli York mi aveva garantito agio e sicurezza, oltre che una grossa libertà di movimento; ed ecco spiegato lo scopo divino del mio matrimonio con lui. Dio non fa mai niente per caso e mano a mano che gli anni passano, il suo disegno mi diventa sempre più chiaro.

Dopo svariate riflessioni la mia scelta era caduta su Thomas Stanley. L’unico uomo che avrebbe davvero potuto aiutarmi. Stanley era vedovo e con figli già adulti. Non aveva nessun interesse al di fuori della sua ristretta convenienza e non era fedele a nessun re, fatto salvo quello vincitore. Lui ed il fratello William per non rischiare mai, ogni volta che c’era uno scontro fra Lancaster e York si posizionavano negli schieramenti opposti. Poi a guerra finita uno intercedeva per l’altro affinché venisse perdonato e riammesso a corte. Stanley era dalla parte degli York nell’ultima battaglia ed era diventato maggiordomo della casa di re Edoardo. Se mi avesse aiutato a dare il trono a mio figlio l’avrei ricompensato più di qualunque altro re.

Lui non si era fatto pregare ed aveva persino acconsentito che il nostro matrimonio rimanesse bianco. Ovviamente avremmo dovuto agire nella maniera più cauta e silenziosa possibile, ma era stato da subito disposto ad aiutarmi. La sua famiglia mi detestava, ma a me non importava nulla: avevo un marito che assecondava i miei intenti, li condivideva ed era interessato al mondo della corte tanto quanto lo ero io. Inoltre avrebbe accettato tranquillamente mio figlio sul trono.

Per uno Stanley era irrilevante chi occupasse la regale seggiola finché ci fosse stato da guadagnarci. La facilità incredibile con cui aveva accettato la mia proposta mi aveva convinto di non aver sbagliato. Il suo nome mi era venuto in mente pregando ed ogni consorte mi aveva aiutato ad arrivare esattamente dove stavo andando: con Edmund avevo generato l’erede prescelto da Dio, con Henry Stafford avevo raggiunto la posizione adeguata per trovare alleati York e con Thomas Stanley avrei infine conquistato il trono per mio figlio. Tutto tornava.

Perciò al fine di non destare sospetti, mi ero dovuta introdurre alla corte York come una povera madonna penitente, tanto dispiaciuta di aver osato ostacolare il casato prescelto per regnare. Almeno secondo loro.

Ero quindi diventata una dama della regina Elisabetta Woodville, la strega dai capelli d’oro.

Mi viene la nausea al ricordo del mio primo giorno a corte. L’ultima volta che ci ero stata, il vecchio re Enrico era tornato sul trono e io gli avevo presentato mio figlio affinché ricevesse la sua benedizione. Ora tutto era cambiato.

La corte yorkista era completamente diversa da quella lancastriana: opulenta, sfarzosa, rumorosa e grossolana per non parlare dello scintillio accecante dei gioielli sempre addosso alla regina.

Elisabetta Woodville dimostrava in tutto e per tutto le sue origini plebee, tipiche di chi ha bisogno di coprirsi d’oro per dimostrare al mondo di meritare il posto che occupa. Mi aveva accolta con un sorriso di circostanza, molto distaccato e da me ricambiato in pari misura.

I primi tempi avevamo cercato d’ignorarci a vicenda, mentre la vedevo rimanere continuamente incinta e partorire bambini peggio di una gatta. Quando ero arrivata al suo servizio oltre a Thomas e Richard Grey i figli nati dal suo primo matrimonio, c’erano le principesse Elisabetta, Maria, Cecilia e l’erede Edoardo, il principe di Galles. Nel mentre aveva perso una figlia, Margherita mi pare si chiamasse, deceduta pochi mesi dopo la nascita. Comunque il piccolo Edoardo era stato subito mandato in Galles sotto la custodia dello zio Anthony Woodville. Che smacco era stato per Clarence e Gloucester i fratelli del re. Il loro regale nipote che veniva allevato dal figlio di un contadino. Un urlare in faccia a tutta l’Inghilterra come di fatto il re stimasse i Rivers molto più di loro.

Comunque non avevano potuto farci nulla. Era stata la condizione posta dalla Woodville per separarsi dal prezioso figlio maschio. E il marito accondiscendente come al solito, l’aveva accontentata ben volentieri. Intanto lei aveva generato il secondogenito Riccardo duca di York e la principessa Anna.

Come risultato di questa politica a favore dei Woodville, Clarence nel giro di poco tempo aveva tentato più volte di detronizzare il fratello avvalendosi questa volta dell’aiuto di Luigi di Francia.

Giorgio di Clarence era in assoluto il più penoso dei tre fratelli York. Il classico asino buono soltanto a scalciare e ragliare. Prima aveva cercato di prendersi il trono attraverso Lord Warwick e poi cercando alleati all’estero. In particolare dopo la morte della moglie Isabella aveva toccato il fondo. Si era inventato di sana pianta che la sposa fosse stata avvelenata da una servetta solo per gettare discredito sul fratello e la moglie in quanto presunti mandanti. Non riuscendo però nel suo intento, si era poi messo a cercare una moglie ricca e danarosa per conto proprio. Isabella Neville gli aveva portato in dote un titolo e metà dell’Inghilterra del nord, ora puntava a Maria di Borgogna la figliastra della sorella, la donna più ricca d’Europa con cui avrebbe avuto abbastanza uomini per invadere il Paese.

Eh sì. Giorgio di Clarence non era astuto, non era intelligente, non era umile e nemmeno un discreto stratega. Era il più bello dei tre fratelli e pensava seriamente che questo gli avrebbe aperto ogni porta o perlomeno così l’avevano abituato a pensare sin da bambino. Non contava di conquistarsi la corona, ma cercava di farsela dare da altri come un bambino che strepita quando vuole un giocattolo che crede di meritarsi solo perché sta urlando più forte di tutti.

Alla fine Edoardo l’aveva fatto imprigionare nella Torre e poi condannato a morte, con l’unico privilegio di poter scegliere come morire. E lui si era fatto pugnalare.

Meglio così. Tra il trono e mio figlio Enrico c’erano esattamente sette bare che ora erano diventate cinque. Senza che io o mio marito facessimo un bel nulla per ottenerlo. Dico cinque bare, perché dopo la morte di Giorgio, Edoardo aveva diseredato ed impoverito i due figli del fratello, lasciando al maschietto solo il trattamento di cortesia come conte di Warwick. Non avrebbe più potuto aspirare al trono. Non che la cosa fosse importante visto che il piccolo Edoardo di Warwick era più sciocco e ottuso del defunto genitore. Doveva avere qualche tara mentale perché tutti sostenevano che fosse troppo debole per decidere di sé stesso figuriamoci per qualcun altro.

Intanto gli anni passavano e la regina continuava a sfornare figli. Dopo Anna di York, era nato il principe Giorgio duca di Bedford ma questo bambino non era durato molto. Un’epidemia di peste bubbonica avrebbe portato via sia lui che sua sorella la principessa Maria. Il tutto mentre la madre generava la principessa Caterina.

La perdita di Maria e di Giorgio era stato davvero un brutto colpo per la Woodville. Già dopo la morte della madre si era spenta come il sole di notte. Si era appesantita, le rughe sul volto e sul collo diventavano ogni giorno più evidenti. Con la morte di Maria andava a monte l’accordo matrimoniale con il regno di Danimarca mentre con la morte di Giorgio se ne andava una possibile ulteriore assicurazione per il trono.

Fu in quel periodo che riuscii ad entrare in sintonia con lei. Era appena nata la principessa Caterina, nascita che non l’aveva in alcun modo destata dal suo doloroso torpore. Non so se fosse la perdita dei figli a farla stare così male o tutto il peso nell’insieme: un marito che invece di sostenerla pensava soltanto a rifugiarsi tra le cosce di Jane Shore o chi per lei, due figli nel Galles che vedeva solo un paio di volte l’anno, la perdita del fratello, dei genitori ed infine tre figli.

A modo mio avevo cercato di consolarla ricordandole che Dio le aveva comunque concesso il trono e che le restavano ancora sette figli di cui occuparsi. Dio le aveva persino tolto dagli occhi Lord Warwick e Giorgio di Clarence i suoi due nemici più pericolosi.

 Senza alcun timore reverenziale le avevo ricordato che non ci si deve lamentare delle sfortune che Dio ti manda, perché Lui a quel punto potrebbe riservarti qualcosa di ben peggiore per farti smettere.

Lei era rimasta stupita dalla mia franchezza. Abituata ad essere circondata dalle servili sorelle minori e da un branco di oche giulive come compagnia perpetua, non aveva mai avuto di fronte una persona che né la ammirava né la compativa. Io non mi sentivo offuscata dalla sua bellezza, dal suo fascino, dal suo essere la regina e nemmeno mi faceva pena quando soffriva. Io ero di gran lunga migliore di lei ed avevo sofferto ben di peggio dal giorno in cui ero nata. Lei viveva in una corte adorante, aveva un marito che l'assecondava quasi in tutto, era piena di figli bellissimi ed aveva sempre avuto una famiglia che l’aveva appoggiata in ogni sua follia. Se Elisabetta Woodville si aspettava da me compassione o tenerezza per quelle due o tre cose storte che le erano capitate nella vita, se lo poteva anche solo scordare.

Io avevo lottato ogni santissimo giorno della mia vita perché Dio mi mandasse il suo favore e m’impegnavo sempre al massimo per riuscirci. Lei avrebbe dovuto fare altrettanto invece che piangere e sbattere le ciglia; ormai non era più una ragazzina e forse non poteva più commuovere neanche un uomo.

Lei a quel punto si era sciugata il moccio ed aveva preso un’aria più composta. Poi nei giorni successivi il suo umore era migliorato. Qualche tempo dopo era di nuovo incinta. Perché Dio abbia mandato così tanti figli a quella donna per me sarebbe rimasto per sempre un mistero.

Comunque adesso sono qui, con questa bambina tra le braccia, si spera l’ultima nata dell’infinita nidiata York/Woodville visto che ormai la bellissima regina Elisabetta ha superato i 41 anni. Ieri alla nascita della bambina le avevo suggerito di chiamarla Brigida, in onore della santa protettrice degli irlandesi. Lei ed Edoardo erano da poco tornati da un viaggio in quei luoghi e procacciarsi il favore di quella gente ribelle con un nome loro caro sarebbe stato molto utile.

Tanto ormai avevano così tante figlie che non sapevano più che nomi utilizzare. Poi approfittando del momento, le avevo anche suggerito di destinarla alla vita ecclesiastica visto che avrebbe portato il nome di una santa. Tutte le sorelle maggiori erano state promesse a tutti i principali rampolli d’Europa: Elisabetta alla Francia, Cecilia alla Scozia, Anna alla Borgogna mentre Caterina ancora non si decidono se sistemarla in Spagna o con il secondogenito del re di Scozia. Intanto vogliono l’ereditiera Anna di Bretagna per il piccolo Edoardo ed hanno costretto la famiglia della cagionevole Anne Mowbray a “maritarla” con il piccolo Riccardo. Quando lei poi è morta di malattia qualche mese dopo, Riccardo in quanto “vedovo” ha ereditato tutto il patrimonio della defunta “moglie”.

Edoardo ed Elisabetta non sono dei reali, sono delle gazze. Dove vedono una iarda di terra o qualcosa che luccica, loro subito l’agguantano. Del resto non si sono fatti scrupoli nemmeno a derubare i figli di Giorgio, i loro stessi nipoti, quindi che cosa avrei mai potuto aspettarmi.

Tuttavia Elisabetta alla mia idea di monacare l’ultimogenita ma soprattutto alla ruffianata del nome, aveva sorriso come la gran civetta che è, e per “premiarmi” la buona idea, mi aveva chiesto di portare Brigida in braccio al corteo per il battesimo.

Perciò ora sono qui con questa bambina tra le braccia a capo del corteo più rumoroso e volgare che la storia d’Inghilterra ricorderà mai. La porterò alla prima cerimonia nonché la più importante della sua vita, ma saranno tutti presi da ben altro.

La principessa Brigida per parte sua è di ottimo umore, una creatura robusta e sana come tutti i fratelli. Ha pochi e radi capelli biondi e occhi azzurri. Scalcia e gorgoglia che è un piacere da ascoltare per chi ama i neonati. Quasi la invidio. Vivrà da principessa di York servita e riverita e poi dedicherà la sua vita a Dio. Non poteva capitarle un destino migliore. Io questa fortuna non l’ho avuta di certo.

Intanto alle mie spalle sento le voci sghignazzanti delle damigelle ed il chiasso dei numerosi presenti che assisteranno al corteo. Sembra più una parata che una cerimonia religiosa. Ma del resto gli York riescono sempre a trasformare tutto in una grottesca buffonata come è tipico del loro stile. Mentre avanzo nella cappella diretta verso il fonte battesimale con la bambina in braccio, sento i borbottii di lady Maltravers, scelta come madrina di cresima della piccola, cerimonia che avverrà subito dopo il battesimo. Sicuramente come me non gradisce i vocii e le risatine irrispettose dei presenti.

Ai miei lati riconosco parecchia gente: vedo i figli maggiori della regina, Thomas e Richard Grey rispettivamente a destra e  a sinistra dello zio Anthony Woodville tornato dal Galles per l'occasione. I ragazzi diventano ogni anno più alti mentre Anthony è sempre maledettamente uguale, non invecchia mai; evidentemente la stregoneria della madre deve aver effetto anche su di lui. Poi c’è mio marito che mi osserva compiaciuto, consapevole che l’essere scelta per portare la principessa a battesimo sia un segno tangibile di come stiamo avanzando molto bene. Io mantengo sempre il mio sorriso di circostanza ma in realtà penso a mio figlio, al giorno in cui porterò mio nipote il principe di Galles a battesimo e tutto il mondo saprà che il merito è stato solo e soltanto mio.

Poi scorgo due figure che mai mi sarei aspettata di vedere: Riccardo di Gloucester ed Anna Neville. Mai avrei detto che sarebbero venuti. Dopo la morte di Giorgio i rapporti tra il re e l’altro fratello si erano parecchio raffreddati.

Gloucester in particolare mi fissa con quel suo sguardo ferino che assieme alla sua bassa statura e gli abiti scuri mi fanno ricordare un diffidente gatto nero e selvatico. Accanto a lui, Anna Neville che invece mi guarda strizzando gli occhi per l’evidente fastidio.

Anna Neville, la figlia di Warwick, la vedova del principe Edoardo di Lancaster, talmente avvilita per la morte del marito che tempo qualche mese aveva sposato di nascosto Riccardo di Gloucester. Io proprio all’epoca stavo valutando di sposarlo al posto di Stanley sperando di convincerlo a tradire il fratello. Ma lui invece aveva preferito la ricca ereditiera di Warwick, tenuta prigioniera dal fratello Giorgio che tramite tutela esclusiva sperava di accaparrarsi anche la sua parte di eredità oltre a quella della moglie.

Quando Isabella era deceduta, Anna Neville non aveva mai voluto credere alla morte per la febbre puerperale. Era andata appresso alle chiacchiere di Giorgio proprio come si era sempre fatta manipolare dal padre, autoconvincendosi che la sorella fosse stata avvelenata dalla regina. Ora mi fissa con quel suo volto triste e cereo mentre porto a battesimo l’ennesima creatura partorita dall’assassina di sua sorella. Lei e Riccardo hanno avuto un solo figlio e pare che questi non sia esattamente il ritratto della salute. Vivono al nord nel castello di Middleham come sovrani mai incoronati ma gentilmente riconosciuti; oltre al loro figlio avevano persino adottato i due orfani di Giorgio ed Isabella che da lì non si movevano mai. Era palese come fossero presenti solo per finta cortesia.

Riccardo nel particolare osserva ogni cosa quasi volesse tastare il cambiamento della corte in sua assenza mentre la moglie adesso guarda per aria, fissando la statua della Madonna. Sicuramente pensa a sua sorella.

Ora vedo William Hastings, il caro amico di Edoardo. Che pena di uomo. Non ha mai avuto uno straccio di personalità ha sempre vissuto all’ombra del caro amico re. È persino vestito con i suoi stessi colori solo che gli manca l’altezza. Quando Edoardo è impegnato con la moglie, ci pensa lui a tenere calda Jane Shore per conto dell'amico fraterno. A proposito, Jane Shore non si vede; ma del resto gli ordini della Woodville sono chiari: le puttane devono restare al loro posto: celate nel buio della notte.

Procedendo vedo i volti biondi e curiosi dei principi di York, i fratelli della bambina che porto. C’è persino il principe Edoardo venuto apposta per conoscere l’ennesima sorella. È alto e biondo ed assomiglia molto alla madre tutto infagottato in broccati di velluto scuro; accanto a lui il fratellino Riccardo decisamente più simile al padre, specie nell’espressione. Poi ci sono le sorelle: la piccola Caterina tenuta in braccio da Cecilia e poi Anna. Tutte e tre bionde, tutte e tre belle. Caterina che ha soltanto un anno si guarda attorno spaesata mentre Anna cerca continuamente di allungare il collo per vedere bene il corteo. Cecilia invece ha l’espressione imbronciata perché voleva essere scelta lei come madrina della sorella, ruolo che invece è toccato ad Elisabetta in quanto sorella maggiore.

Ormai prossima al fonte battesimale scorgo Edward Story il vescovo di Chinchester con il re e la regina. Santo cielo che imbarazzo. Non sono ad un ballo sono ad un battesimo per l’amor di Dio! Lui letteralmente strizzato nel suo broccato blu che sembra quasi stia per esplodere e con un mantello dorato luccicante a completare il disastro. È grasso da far paura e si ostina a vestirsi come quando era ancora magro ed aitante. La moglie non fa una figura migliore con il suo abito verde acqua pieno di ricami in filato d’oro. Non ha più i capelli biondi ed ha pensato di compensare riempiendosi di gioielli luccicanti. Credono di dare l’impressione di essere regali invece sono soltanto ridicoli. Sono vecchi, appesantiti, e stantii nella loro prevedibile banalità. 

Cerco di non vederli mentre porgo la bambina alla sua madrina, sua sorella la principessa Elisabetta. Lei mi sorride calorosamente avvolta nel suo bell’abito rosso fragola che le sta benissimo, e lei ne è totalmente consapevole. Sua sorella Maria era la più bella delle principesse di York ma ora che non c’è più, il titolo spetta sicuramente a lei.

Elisabetta assomiglia molto alla madre tranne che nell’espressione. Ha i capelli dorati seminascosti dal cappuccio e grandi occhi grigi da gatta. È alta per la sua età e la pelle è chiarissima come quella degli angeli. Già si vede come regina di Francia tanto che sta cercando di assumere i modi e gli atteggiamenti francesi, compreso il loro stupido sorriso ruffiano.

Alla mia espressione ironica lei m’ignora e si avvicina con Brigida al padrino William Waynflete il vescovo di Whinchester; poi alla seconda madrina, scelta apposta per completare questo quadro di umana pietà: la duchessa vedova di York, Cecilia Neville.

Non ha mai accettato il matrimonio del figlio con la contadina di Grafton. Non ha mai accettato nessuno dei loro figli tanto da aver spesso tramato in favore di Giorgio e consorte. Ora che lui non c’è più, si è attaccata in modo morboso a Riccardo ed Anna Neville, quando dell’ultimo figlio quella donna a malapena sapeva il nome.

Ha la postura eretta, lo sguardo duro rivolto verso l’alto senza fissare nessuno in particolare. Evidentemente il figlio deve averla costretta a presenziare per farle capire che lui era il suo re e poteva decidere di lei come voleva. Magari dietro suggerimento della stessa Woodville. Ma Cecilia Neville è testarda ed altera, neanche ci prova a prendere in braccio la bambina che resta saldamente ancorata fra le braccia della sorella. È lì come un cane legato e tutti lo devono capire.

Io silenziosamente mi posiziono accanto a mio marito ed osservando questo spettacolo nauseabondo, mi domando quando questa farsa avrà finalmente una fine. Questa è una famiglia reale divisa, dove dietro ai bei vestiti, ai gioielli ed ai manti regali si cela una miseria sconfinata.

Un re fratricida che ha contro la madre ed i familiari, i quali a loro volta hanno abbastanza potere per distruggere la moglie, i figli con tutto il di lei parentado.

Mi domando quando tutto questo finirà, quando mio figlio sarà di nuovo qui con me ed insieme avremo finalmente il posto che ci spetta.

Mentre lo penso, dalle spalle della cappella entra una luce solare fortissima, la stessa che accompagnò la mia prima visione rivelatrice. Ancora una volta essa si posa sulla statua della Madonna con il bambinello, la quale esattamente come quella volta, splende ancora di luce propria in mezzo all’artificioso e scintillante oro degli York.

Finalmente da quando è iniziata la giornata mi viene veramente da sorridere.

Non dovrò attendere ancora molto; sono quasi alla fine della mia prova e Dio nella sua infinita misericordia, dopo avermi portata tanto in basso finalmente mi rialzerà portandomi all’apice della sua gloria sul più alto scranno d'Inghilterra.

È il segno di Dio. Quel Dio che da sempre sottomette tutti alla sua volontà.

Persino i re York.

Commenti

Post più popolari